Scrivi comunicazione e leggi persuasione. Vero, fin tanto che il destinatario è incline ad assorbire tutti i messaggi ricevuti senza valutarne criticamente i contenuti, come se questi fossero calati dall’alto. Ma se l’età del ricevente si iscrive in un lasso temporale che va dai 20 ai 35 anni circa allora la musica cambia. Questo, infatti, sarebbe un Millennials, parte di una generazione cresciuta sotto l’incessante bombardamento pubblicitario della tv generalista, abituata a non dare per scontato il mondo del lavoro e che ha vissuto, in prima persona, un’epoca di forti cambiamenti tecnologici, con la conseguente evoluzione degli strumenti e dei canali informativi. Sarebbe un soggetto tendenzialmente molto attento alle proprie scelte, scettico nei confronti del mercato e tutto ciò che questo ha da offrire e poco incline a riporre piena fiducia verso i messaggi pubblicitari. Un soggetto esigente, dunque, che non vuole essere persuaso né tantomeno stupito, ma che vuole prima di tutto essere ispirato.
Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione e con la caduta della “s” a certificare l’ingresso del termine Millennials nel gergo comune del nostro Paese, la necessità di individuare la chiave comunicativa più adatta per instaurare relazioni durature con la Generazione Y diventa ogni giorno più attuale. Senza scomodare troppo giganti intellettuali come Zygmunt Bauman, è chiaro come la capacità dell’emittente di individuare ingredienti comunicativi adatti a presentare gli aspetti più umani e reali di un brand costituisca un’arma vincente quando di parla di comunicazione e Millennials. Questi, infatti, oltre all’affidabilità, cercano in un brand anche onesta e autenticità, qualcuno che sia in grado di mettersi in discussione di fronte al consumatore per mostrare a un’audience estremamente difficile chi è veramente.
Per riuscirci il sarcasmo e l’autoironia sono un’ottima risposta. Fuori dalla monotonia e dall’autoreferenzialità che ha caratterizzato la comunicazione aziendale per interi decenni esiste, infatti, un mondo dove non prendersi troppo sul serio aiuta i consumatori più esigenti a prendere una decisione e i brand a posizionarsi in maniera solida nel proprio mercato di riferimento. Un modo di intendere la comunicazione pubblicitaria che arriva da oltreoceano dove, nella Madison Avenue di ormai mezzo secolo fa, William Bernbach e la sua DDB diedero vita a una serie di campagne pubblicitarie innovative per posizionare nel mercato americano un’automobile nata sotto l’egida del regime nazionalsocialista: il Maggiolino Volkswagen. In una società dove il sogno americano esigeva l’acquisto di automobili enormi, di grossa cilindrata, Bernbach decise di scherzare sulle dimensioni del Maggiolino per dare risalto alla principale caratteristica dell’auto tedesca: l’affidabilità. Think Small ebbe un successo enorme, contribuendo a rendere grande la casa automobilistica tedesca.
Oggi sono sempre più numerose le realtà orientate a questo tipo di registro comunicativo: dalla campagna di promozione territoriale Unrating Vienna, che fa leva sulle recensioni negative ricevute per esortare i visitatori a dare una propria valutazione della città alla campagna Assembly Fail di Ikea, che ironizza sui suoi mobili componibili per promuovere il servizio di assemblaggio, passando per gli endemici ritardi dei treni raccontati nello spot realizzato per il centenario di Ferrovie dello Stato. Si tratta di esempi che testimoniano come l’utilizzo dell’umorismo sarcastico per creare l’associazione simbolica di un brand con determinati valori consenta di aprire gli orizzonti a interpretazioni più veritiere dei brand e di renderli più vicini ai bisogni e alle esigenze dei consumatori.
Non un azzardo comunicativo, dunque, ma una strategia pensata per distinguere un brand all’interno dell’attuale overload informativo, mettendo al centro il senso della realtà e l’autenticità del messaggio, ovvero i principali punti di contatto con una generazione che non vuole essere persuasa ma ispirata.